La parola “verità” non esiste nell’abbecedario della politica, ma noi siamo comunque liberi, in un certo contesto, di dire “sì” o “no”. Senza questa libertà nessuna azione sarebbe possibile.
La falsità deliberata -come nel caso delle foibe – è dovuta a fatti contingenti e la verità fattuale non è sempre verità. Dipende in quale nazione, gruppo o classe ci troviamo. In circostanze normali il bugiardo viene sconfitto dalla realtà. Avere la menzogna come principio non porterà mai da nessuna parte.
Tutti i grandi poteri secolari hanno sempre utilizzato l’arte dell’inganno per ingraziarsi i propri sudditi e per celare loro le pecche del sovrano e del suo governo. Durante il Secolo breve – per dirla alla Hobsbawm – la propaganda giocò un ruolo fondamentale per gli stati vincitori del secondo conflitto mondiale. Basti pensare al dramma delle foibe e alla reazione ambigua da parte del PCI e del suo segretario Palmiro Togliatti.
Gli eccidi delle foibe
Le foibe sono stati degli eccidi ai danni della popolazione italiana della Venezia Giulia e della Dalmazia, avvenuti durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato secondo dopoguerra da parte dei partigiani jugoslavi e dell’OZNA. Il nome deriva dai grandi inghiottitoi carsici dove furono gettati molti corpi delle vittime che nella Venezia Giulia sono chiamati “foibe”.
Al massacro seguì l’esodo giuliano – dalmata, ovvero l’emigrazione forzata della maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia, territori del Regno d’Italia prima e poi occupati dall’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia del Maresciallo Tito. Le stime ci indicano un numero di emigranti giuliani, fiumani e dalmati che si aggira tra le 250.000 e le 350.000 persone.
Le vittime dell’eccidio si aggirano tra le diecimila e le quindicimila. Ad oggi è impossibile fare una stima precisa poiché vengono ritrovati molto spesso dei cimiteri comuni in delle foibe nascoste dall’evoluzione geomorfologica del territorio. Ma da dove provengono i motivi di questo eccidio?
Con l’editto del 1866 emanato da Francesco Giuseppe I d’Austria vi furono almeno quarantamila espulsioni di massa dalla Venezia Giulia, mentre gli italiani, sudditi degli asburgici, vennero ridotti all’espatrio volontario. Tra le centomila e le duecentomila persone vennero deportate nei campi di concentramento tra Katzenau, Wagna, Mittendorf, Mistelbach e Braunau Am Inn.
Vennero impiegate numerose squadracce di nazionalisti slavi contro gli italiani. Si passò all’emigrazione forzata di numerosi gruppi slavi e tedeschi per eliminare gli autoctoni italiani. La scuola venne slavizzata e la cultura italiana venne resa proibita. Si compirono numerosi pogrom durante i primi anni del 1900 contro negozianti e studenti di lingua italiana.
L’irredentismo italiano e l’invasione nazifascista della Jugoslavia
Con la nascita dell’irredentismo italiano in Istria si promosse l’unione della stessa Istria nel Regno d’Italia. Da qui cominciarono le prime manifestazioni contro i soprusi subiti dagli italiani durante gli anni dal 1866 al 1918. Nel primo dopoguerra nasce in Italia il fenomeno del fascismo, il quale cavalcherà l’onda del consenso popolare italiano nella complessa situazione fiumana e di tutto il Venezia Giulia.
Dopo l’attuazione del Regio decreto per la “bonifica culturale” degli slavi, si passò alle maniere forti. L’Asse invase la Jugoslavia nel 1941, creando un terreno friabile per via delle pesanti instabilità tra croati, serbi ed elementi reazionari all’invasione stessa. Nello stato indipendente della Croazia nacquero gli ustascia di Ante Pavelic, i quali si macchiarono di efferati crimini contro i serbi e gli ebrei. Per contrastarli, presero le armi i partigiani di Tito – comunisti – e i cetnici – nazionalisti monarchici.
Dopo l’armistizio del 1943, la situazione precipitò. Con l’invasione jugoslava della Venezia Giulia e la ritirata delle truppe tedesche, iniziarono gli eccidi nei confronti degli italiani ivi residenti. Fu un massacro barbarico, nel quale uomini, donne e bambini vennero crudelmente gettati – anche vivi – dentro gli inghiottitoi carsici e lasciati a morire di stenti, magari con qualche cane feroce per via della fame gettato lì dentro ad alleviare la loro morte già tremendamente tragica. Contare il numero delle foibe è ad oggi impossibile per i motivi precedentemente citati. Non si conosce con esattezza neanche il numero dei morti che vaga su stime imprecise tra i diecimila e i quindicimila, ma potrebbero essere molti di più.
Le cause della damnatio memoriae comunista
Il primo motivo della damnatio memoriae fu il silenzio internazionale, provocato dalla rottura tra Tito e Stalin nel 1948. Ciò spinse tutto il blocco occidentale a stabilire rapporti meno tesi con la Jugoslavia in chiave antisovietica. Vi furono soprattutto cause politiche nazionali, dal momento che Togliatti non aveva interesse a evidenziare le proprie contraddizioni sulla vicenda e le proprie subordinazioni alla volontà del comunismo internazionale.
Ciò che colpì più di ogni altro fattore fu il silenzio dello Stato Italiano. Esso non voleva più prendere in considerazione le questioni relative alla sconfitta nella seconda guerra mondiale, considerato che a partire dagli anni sessanta i rapporti fra Jugoslavia e Italia si erano normalizzati. La memoria degli avvenimenti rimase per lo più ristretta nell’ambito degli esuli, di qualche intellettuale anticonformista e di commemorazioni locali. Solo una parte della destra ha sostenuto le ragioni delle vittime.
Lo Stato inizia a far luce sulla tragedia
Il 24 aprile 1975, Giovanni Leone, allora presidente della Repubblica Italiana, partecipò alle celebrazioni per il trentennale della Liberazione di Trieste alla Risiera di San Sabba. Il giorno seguente presso la foiba di Basovizza, depose una corona di alloro in ricordo degli infoibati: questo gesto provocò a distanza di poche ore una forte nota di protesta jugoslava tramite l’agenzia di stampa Tanjug e la corona venne rubata e bruciata.
Nel 1982 Giovanni Spadolini, allora Presidente del Consiglio, dichiarò le foibe di Basovizza e di Monrupino, monumenti di interesse nazionale. Nel 2004 entrambi i luoghi divennero monumento nazionale. Con la fine della guerra fredda e il crollo del socialismo reale, il tema delle foibe tornò a riscuotere anche l’interesse dei mass media.
Dal 2005, ogni 10 febbraio si celebra il Giorno del ricordo, solennità dedicata alla commemorazione delle stragi e del successivo esodo. La data ricorda il trattato di Parigi siglato nel 1947, che assegnò alla Jugoslavia la grande maggioranza della Venezia Giulia e la città di Zara.
L’ambigua politica del PCI
L’atteggiamento del PCI nei confronti della questione dei confini orientali italiani fu ambiguo. Già nel corso del conflitto esso aveva acconsentito a lasciare la Venezia Giulia e il Friuli orientale sotto il controllo militare dei partigiani di Tito. Ciò avallò la successiva occupazione jugoslava. Fu per questo motivo che venne ordinato ai partigiani operanti nella regione di porsi sotto il controllo del comando jugoslavo.
Successivamente il PCI richiese che i territori assegnati all’Italia col Trattato di Rapallo (1920) passassero alla Jugoslavia, ritenendo che i diritti nazionali degli italiani sarebbero stati tutelati dal nuovo ordine socialista imposto da Tito al suo Paese; infine – a partire dalla metà del 1945 e massimamente nel periodo della rottura tra Tito e Stalin – passò a una difesa del carattere italiano della città di Trieste.
Negli anni successivi alla creazione del Partito Comunista della Venezia Giulia, molti ex partigiani e militanti intrapresero la via dell’esodo come conseguenza delle politiche nazionaliste e repressive del comunismo jugoslavo, oltre che per la disputa che opponeva Tito a Stalin, e che vedeva i comunisti italiani schierati su posizioni rigidamente staliniane.
Negli anni successivi il PCI contribuì a dare all’opinione pubblica italiana una visione alterata degli avvenimenti, volta a minimizzare e a giustificare le azioni dei comunisti jugoslavi. Di tale atteggiamento ne fecero le spese soprattutto i profughi, ai quali fu ingiustamente cucita addosso la nomea di “fascisti in fuga”.
L’ignominioso negazionismo contemporaneo sulle foibe
Tutt’oggi persiste in taluni ambienti comunisti e post-comunisti, in particolar modo quelli più legati all’epopea partigiana, un ignominioso negazionismo che tende a negare o a giustificare gli eccidi. In un suo libro del 1997, la triestina Cernigoi ha definito tutto il processo di riflessione storiografica sulle foibe sviluppatosi in Italia nel corso degli anni novanta come frutto diretto della propaganda nazifascista e teso a riproporre un neoirredentismo italiano.
Gli infoibati, secondo la negazionista, furono in tutto 517 e la maggior parte erano militari e collaboratori del nazifascismo. Il testo provocò moltissime polemiche tanto che Giorgio Rustia, ricercatore vicino alle associazioni degli esuli istriani, pubblicò nel 2000 un saggio fortemente critico delle metodiche di studio della Cernigoi.
In uno studio del 2003, gli storici Pupo e Spazzali hanno inserito la Cernigoi tra i “negazionisti o riduzionisti” delle foibe. Lo stesso Rolf Worsdorfer definì la Cernigoi “una negazionista”.
La considerazione dei massacri come atto di vendetta è stata ribadita nella dichiarazione congiunta espressa dal Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano e dal Presidente della Repubblica di Croazia Ivo Josipovic, durante il loro incontro avvenuto a Pola nel 2011:
«… Questa è l’occasione per ricordare le vittime italiane della folle vendetta delle autorità postbelliche dell’ex Jugoslavia. Gli atroci crimini commessi non hanno giustificazione alcuna.»
Proprio ieri il Presidente della Repubblica Mattarella ha inferto un duro colpo ai negazionisti e ai riduzionisti delle foibe, utilizzando toni forti per esprimere il suo dissenso nei confronti della tragedia e delle idee che alterano la verità storica. Clicca qui per leggere la dichiarazione completa
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