Milazzo, quando la processione di S. Giuseppe diventò tumulto

La ricorrenza di S. Giuseppe richiama alla memoria un fatto accaduto a Milazzo tanto tempo fa, testimoniato da un rapporto redatto a Messina dal console del Regno di Sardegna ed oggi custodito all’Archivio di Stato di Torino. Correva l’anno 1838 e la processione di S. Giuseppe, prevista per il 19 marzo, si dovette rimandare a causa dell’inaspettato arrivo in città del Re delle Due Sicilie. Ebbe così luogo domenica 25 marzo. Era appena partita dalla piccola chiesa del Borgo, quando un sergente, in compagnia di un caporale e di altri due sergenti, piuttosto che raccogliersi in preghiera dietro la statua del Santo, pensò bene d’importunare una giovane milazzese, una ragazza di circa 16 anni “piuttosto graziosa”, così viene descritta nel rapporto. Era figlia di un artigiano, il maestro cordaio Emiliano Puglisi.

La processione non era ancora giunta alla Badia benedettina e nessuno poteva mai immaginare cosa stava per accadere. Ma ecco che il sergente si avvicina alla ragazza dandole, di nascosto dal padre che le camminava accanto, “qualche pizzico”. La ragazza subì pazientemente ed informò immediatamente il padre, il quale, con prudenza, sorvegliò con la coda dell’occhio il militare. Che però persisteva spavaldamente. A questo punto il Puglisi, «scorgendo che quello insolente proseguiva, si confidò con un amico chiamato Russo, il quale, essendosi accertato che il sergente continuava nella sua immodestia, gli disse che lasciasse quieta quella giovane onesta». Caso contrario, gli avrebbe fatto fare «la bocca amara». Niente da fare. Di fronte alla Badia, il sergente alzò il tiro, spingendosi ad alzare «il lembo della veste alla giovane». Ci fu un parapiglia: il sergente sguainò la spada, prontamente strappatagli dalle mani dal Russo che con un colpo netto gli recise l’orecchio. Immediatamente il caporale e gli altri due sergenti sguainarono le sciabole, minacciando il Russo ed altri concittadini accorsi in aiuto, mentre i fedeli fuggivano dentro la Badia assieme ai religiosi che portavano la vara, abbandonata nel piazzale antistante la chiesa delle monache benedettine. Nella colluttazione i militari persero il controllo delle proprie sciabole, cadute nelle mani dei popolani, i quali li misero in fuga verso il Castello e ne colpirono uno procurandogli la «perdita dei denti con porzione del labbro inferiore».

Tornata la calma, alcune donne, mosse da compassione e da devozione, pensarono bene di condurre il simulacro di S. Giuseppe sino alla chiesa di S. Francesco di Paola, dove lo misero al sicuro. Ma la quiete fu solo apparente. I militari, infatti, tornarono armati con sei soldati e con alcuni condannati ai lavori forzati, detenuti nei bagni penali del Castello. Mentre altri militari cominciarono a sparare sulla folla dalle alture del possente bastione tondo di S. Maria, posto all’ingresso della cittadella fortificata. Il vile attacco alla popolazione indifesa provocò tre feriti: «uno mortalmente nello stomaco trapassandolo da una parte all’altra, ch’è un certo Micale, altro nella gamba; ed il bambino ch’era accanto a San Giuseppe ebbe trapassata la gamba». I fedeli si diedero alla fuga, tranne un manipolo di coraggiosi, che disarmò 4 militari costringendo tutti, anche i condannati ai lavori forzati, a trovare rifugio nel Castello. Il successivo arrivo del comandante del distaccamento di Milazzo ristabilì finalmente l’ordine: i popolani restituirono i quattro fucili sottratti nella zuffa, mentre otto militari finirono all’ospedale. Al resto avrebbe pensato la giustizia.


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