Coronavirus, nella prossimità della morte, riappropriarsi del senso della vita.

Il Coronavirus ha il volto oscuro dell’incertezza, della paura, dello sgomento e del terrore; le emozioni che dominano i nostri vissuti svelano la precarietà dell’esistenza, ci confondono, ci disorientano, ma solo nel caos, senza struttura e ordine, possiamo raggiungere organizzazioni straordinariamente nuove.

Il cambiamento, inteso come nuova condizione di equilibrio, segue necessariamente ad uno stato di destabilizzazione e ha il colore del coraggio, della rinascita.

Il COVID-19 ci ricorda che possiamo morire, ma questo racconto dalle note malinconiche ci restituisce delle risorse. Abbiamo infatti l’occasione di confrontarci con la morte con una certa dose di controllo, di sentire reale un destino che sappiamo appartenerci, ma con cui evitiamo di confrontarci. Così, nella prossimità della morte, potremmo riappropriarci del senso della vita.

Siamo, sin da quando eravamo bambini, bisognosi di una condizione limite per poter focalizzare l’attenzione su ciò che davvero è importante per noi. Molte volte ci siamo domandati, tra sorrisi e curiosità, cosa ci sarebbe piaciuto portare con noi su un’isola deserta. In quest’ottica il virus ci obbliga a confrontarci con noi stessi, con l’altro e con quello che dovrebbe essere il nostro porto sicuro: la casa.

Se leggessimo l’incapacità di rispettare la regola principale – ovvero quella di restare tra le proprie mura – come l’impossibilità di confrontarci con scelte in cui non ci identifichiamo? O ancora, semplicemente, se quell’isola non fosse la nostra e avessimo scelto di portare con noi non esattamente ciò che desideravamo?

Se leggessimo questo orientamento verso l’esterno, non riduttivamente come irresponsabilità, ma come fuga dell’interno, da quelle trame relazionali che abbiamo prima costruito e da cui, con le più sofisticate strategie di difesa, siamo poi sfuggiti?

Il soffocamento potrebbe essere allora il vissuto naturale di maglie che abbiamo tessuto e che voracemente sembrano stringerci. La casa è idealisticamente il nostro luogo sicuro, in cui proteggiamo ciò che per noi è più caro. È lì che dovremmo trovare il senso della nostra esistenza, tutto ciò che di prezioso e delicato abbiamo scelto di portare su quest’isola senza oceano.

Soffocamento, frustrazione, evasione, dolore però sembrano aspettarci proprio lì, in quelle mura che hanno accolto scuse, storie, emozioni che non raccontano chi volevamo essere, con chi volevamo essere.
Al contrario, sembrerebbero essere senza protagonista.

Il Coronavirus ci dice che questo ripiegamento verso l’esterno altro non è che il bisogno dell’individuo di scappare dall’interno, intrapersonale ed interpersonale; ci sta insegnando che non è il mondo che ci costringe ad andare verso di lui, ma che siamo noi a scappare da quello che abbiamo scelto male, perché poco ci siamo conosciuti, amati e scelti. Potrebbe essere l’occasione di accogliere una lettura nuova. Il totale orientamento verso l’esterno potrebbe essere interpretato come sintomo di un adulto che sperimenta, a più livelli, un disagio.

Quest’era che istruisce all’esternalizzazione e alla socializzazione del sé, potrebbe non essere una realtà oggettiva che ingloba, ma una costruzione soggettiva, coerente con bisogni individuali e ancora di più relazionali, di evasione. Dunque, quello che è visibile, è inteso oggi come espressione dell’inguaribile tendenza umana alla trasgressione, esprimerebbe l’incapacità di accogliere la più importante richiesta di cambiamento: “Via la maschera”.

Non abbiamo più scuse, il lavoro non ci aspetta, la gente fuori non ha bisogno di noi, non possiamo più dire di non arrivarci. Questo virus, in un’epoca senza pause, ci sta regalando l’occasione del tempo. Non ci ha bloccati, ci ha forse sbloccati. Ci sta concedendo di andare in quella casa da cui fuggiamo e scegliere, un’altra volta.

Abbiamo l’occasione di togliere tutti i veli che si frappongono tra noi e la nostra identità, tra quello che siamo e quello che vorremmo essere. Potremmo allora, se volessimo, seppure con dolore, con sacrificio e consapevolezza, esplorare gli angoli di casa che troppo spesso non raccontano la nostra storia; avremmo, se volessimo, la libertà di farci delle domande e di darci delle risposte, vere; potremmo flirtare con il caos e raggiungere nuove forme di equilibrio che raccontino chi siamo, non solo chi desideriamo essere.

La cosa più sorprendente sarà che, quando avremo finito, saremo liberi di stare dentro e fuori, finalmente liberi di stare chiusi tra mura dai colori scelti e non subiti; dipinte e non solo guardate; riempite di relazioni che ci appartengono.

Avrà un odore di VITA e non ci farà più così paura. Sentiremo allora, di aver portato con noi, su quell’isola, l’unica cosa di valore. Il Coronavirus è una fiaba con una storia triste; il finale, però, possiamo ancora sceglierlo.

Dott.ssa Carmen Duca – Psicologa clinica, dello sviluppo e neuropsicologa


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